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In questo articolo si analizzano tutte le informazioni relative ai rendimenti dei comparti di Fondo Eurofer.

RENDIMENTI GENNAIO-SETTEMBRE 2023: IL COMMENTO DI FONDO EUROFER

A fine settembre i rendimenti rispetto a inizio anno dei comparti del Fondo Eurofer erano tutti positivi: Garantito +1,33%, Bilanciato +2,90% e Dinamico +4,90%.

Questi rendimenti sono dovuti principalmente alla componente azionaria e, in misura minore, alla componente obbligazionaria a breve termine.

Alla fine di settembre, infatti, tutti gli indici azionari che compongono i benchmark dei comparti Bilanciato e Dinamico avevano rendimenti da inizio anno positivi: +12,50% (Azionario globale mercati sviluppati), +10,60% (Azionario globale mercati sviluppati con cambio coperto), +3,10% (Azionario globale mercati emergenti) e +4,22% (Azionario globale small cap).

Gli indici obbligazionari avevano invece rendimenti contrastanti. Positivi rispettivamente del +1,51% e 1,14% gli indici euro 1-3 anni (rispettivamente obbligazionario misto e governativo), nei quali l’elevato rendimento corrente compensa le perdite in conto capitale causate dal rialzo dei tassi, e del +3,60% l’indice obbligazionario globale high-yield con cambio coperto che segue indirettamente l’andamento dei mercati azionari. Negativi, sia pure di poco, l’indice obbligazionario globale investment-grade (-0,68%)  e l’indice dei titoli di Stato globali (-0,54%), tutti e due con cambio coperto.

Questi risultati sono l’esito di fasi diverse, conseguenza della differente percezione che nel corso dei mesi gli investitori e le banche centrali hanno avuto della crescita globale e dell’inflazione.

L’anno è iniziato con una diffusa convinzione che l’economia mondiale si avviasse verso un rallentamento della crescita accompagnato da una parallela moderazione delle pressioni inflazionistiche e da politiche monetarie meno restrittive. Questa attesa è stata smentita verso la fine di gennaio, quando è emerso che la crescita era robusta e l’inflazione scendeva meno di quanto sperato, rimanendo ampiamente al di sopra dell’obiettivo delle banche centrali. Queste hanno ripreso un atteggiamento restrittivo, sia nel decidere nuovi rialzi dei tassi, sia negli annunci. In pochi giorni l’attesa di rialzo dei tassi della BCE è passata dal 3% a oltre il 4% e per la FED è passata dal 5% a quasi il 6%. Questo cambiamento ha avuto un impatto immediato sui mercati obbligazionari, che hanno perso praticamente tutti i guadagni realizzati rispetto ai valori di fine 2022.

La crisi delle banche americane prima, e di Credit Suisse poi, ha fatto pensare a un cambiamento della politica monetaria, portando a un temporaneo recupero degli indici obbligazionari.

L’inflazione ha però continuato a dominare le preoccupazioni delle banche centrali. Sia la FED sia la BCE hanno continuato ad aumentare i tassi ufficiali fino a tutta l’estate, nonostante il miglioramento dei dati tendenziali. Negli Stati Uniti questo dato è sceso da un massimo del 9,1% di giugno 2022 a un minimo del 2,97% di giugno 2023; nell’Eurozona si è passati da un massimo del 10,6% di ottobre 2022 al minimo del 4,3% di settembre 2023. Ciò soprattutto grazie al calo dei prezzi delle materie prime, scesi in media del 7% in euro rispetto ai primi nove mesi del 2022.

Come detto, però, ciò che preoccupa non è tanto il tasso di aumento annuale dell’indice generale dei prezzi al consumo, ma quello dei prezzi “core” che escludono le componenti più volatili come beni energetici e alimentari. Questo dato a settembre è stato pari al 4,1% negli Stati Uniti e al 4,5% nell’Eurozona, ben oltre l’obiettivo del 2% delle banche centrali. Al di sopra di questo obiettivo, e pari al 2,60% circa in tutte e due le aree economiche, l’inflazione attesa a 10 anni ricavata implicitamente dai rendimenti dei titoli “inflation linked”.

In questo contesto si è diffusa la convinzione che il perdurare di tassi elevati produca un rallentamento o una recessione vera e propria prima negli Stati Uniti e poi in Europa.

Da questo punto di vista i segnali sono contrastanti. Un indicatore che normalmente anticipa una recessione è la differenza fra i rendimenti dei titoli di Stato a lungo termine e a breve termine. Se è negativa indica un’attesa di riduzione dei tassi a breve nel prossimo futuro, come reazione a un rallentamento dell’economia. Negli Stati Uniti questa differenza era arrivata ad un valore negativo di circa 1 punto percentuale, livello massimo da oltre 40 anni, ma con il recente aumento dei rendimenti a 10 anni si è praticamente azzerata.

Nei dati congiunturali per ora si osserva un forte rallentamento del settore manifatturiero, soprattutto nell’Eurozona, mentre i servizi continuano a sostenere l’economia. La spiegazione dell’elevata domanda di servizi è il recupero dopo le chiusure della pandemia di Covid, reso possibile anche dagli ingenti trasferimenti pubblici alle famiglie. 

Sulle prospettive dell’economia mondiale pesa la Cina, dove il recupero sperato dopo la fine delle chiusure della politica “zero-Covid” è più lento del previsto.

A moderare l’attesa di recessione è il mercato del lavoro, dove sia negli Stati Uniti sia nell’Eurozona si registrano livelli di disoccupazione ai minimi storici.

L’andamento negativo dei mercati obbligazioni nell’ultimo trimestre è stato provocato dall’aumento dei rendimenti. Nel trimestre i rendimenti dei titoli di Stato a 10 anni sono saliti sia negli Stati Uniti, dove l’aumento è stato di circa 80 pb, da 3,80% a 4,60%, sia nell’area euro, dove l’aumento è stato di 40 punti base, da 2,40% a 2,80%.

A loro volta i rendimenti sono saliti per due ragioni. Da un lato (anche se il mercato però non sembra attendersi nuovi aumenti dei tassi ufficiali) a spingere al rialzo i rendimenti a lungo termine è la convinzione che i tassi ufficiali, se anche non cresceranno più, rimarranno alti più a lungo di quanto si pensasse qualche mese fa. Dall’altro lato la pressione dell’offerta di titoli di Stato per finanziare il disavanzo pubblico, soprattutto americano, ha prodotto un aumento dei tassi reali.

L’aumento dei rendimenti ha messo sotto pressione le borse. Nel trimestre l’indice indice globale dei mercati sviluppati con cambio coperto perde il 3,05% mentre quello con cambio aperto, grazie al rafforzamento del dollaro, perde solo il 0,52%.In questo quadro si è innestata la crisi di Gaza, che per ora ha avuto un impatto limitato sui prezzi delle materie prime e sui mercati finanziari, ma che certamente aggrava le tensioni geopolitiche già acute per la guerra in Ucraina e il confronto sempre più stretto tra Cina e Stati Uniti.

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